Marco Antonucci – Paolo Oscar, Olivicoltura in provincia di Bergamo. Storia, tecnica e futuro di una coltura di frontiera, Bergamo, Provincia di Bergamo, 2011, 182 p.
La coltivazione dell’olivo si va estendendo nel Bergamasco. Certo, è una coltura marginale, spesso integrativa, che però negli ultimi anni ha conosciuto da noi un vero exploit. Lo documenta ampiamente questo volume che è nello stesso tempo un’attenta e documentata ricognizione storica sull’olivicoltura bergamasca degli ultimi due secoli e una descrizione organica e dettagliata delle tecniche agricole moderne e razionali per condurre a buon fine un oliveto, anche in terra orobica.
Sono infatti sempre più numerosi i bergamaschi che, vivendo nei luoghi propizi («la media e alta collina possono offrire interessanti prospettive di produzione» scrivono gli autori), ed avendone la possibilità, hanno intrapreso l’olivicoltura in questi anni caratterizzati da nuova attenzione ad un’alimentazione naturale, basata su cibi vicini, sicuri e genuini. L’incremento dei coltivatori di olivi si è accentuato specialmente da quando (2005) un frantoio ha aperto i battenti nella zona della Tribulina di Gavarno. I nuovi olivicoltori sono mossi da tanta passione, infinita pazienza contadina (l’olivo è lento a dare frutti, ma poi lo fa per cent’anni …), fiducia nella gran madre terra. Hanno un obiettivo: portare sul desco quotidiano un’ampolla di olio ricco di gusto, leggero, aromatico, frutto del loro lavoro. Così possono assecondare l’antica raccomandazione di Marco Terenzio Varrone, quella di non scialacquare il proprio denaro per acquistare derrate alimentari che si potrebbero produrre direttamente sul proprio fondo.
Per i nuovi coltivatori di olivi la scelta delle varietà da impiantare è vasta: in Italia esistono 700 cultivar e nel mondo più di 1.200. Le più diffuse da noi, come ci informano gli autori, sono cinque: Leccino, Frantoio, Casaliva, Pendolino, Sbresa, quest’ultima ritenuta la varietà autoctona della provincia di Bergamo, probabilmente portata dai Romani ai tempi dell’Impero; essa può essere considerata una mutazione della varietà Frantoio, adattatasi alle condizioni pedoclimatiche della nostra terra.
Così i 36 ettari di terreno, in gran parte sulla sponda occidentale del lago d’Iseo, condotti prevalentemente a olivi nell’Ottocento sono diventati oggi 165 e stanno aumentando. Si è moltiplicato anche il numero delle piccole aziende della nostra provincia che gestiscono questa produzione, minore ma significativa, che oggi raggiunge i 2.000 quintali di olive, quando la Lombardia ne produce 60.000 e l’Italia, nel suo complesso, intorno ai trentacinque milioni. I nuovi oliveti bergamaschi sono gli eredi dei «fruttiferi olivi» che secondo padre Celestino Colleoni, «tramezzavano», già all’inizio del XVII secolo, le viti moscatelle e gli alberi da frutto sui ronchi del monte di Villa, all’inizio della valle Seriana.
Marco Antonucci, che ha curato la parte più propriamente agronomica del volume, ha descritto con competenza e rigore tutte le fasi della coltivazione: dalla scelta del terreno e delle varietà ad esso adatte, ai criteri più razionali della messa a dimora, la densità ottimale di piantagione, le lavorazioni successive, la potatura, (che non incrementa la produttività, anzi …), la concimazione, la lotta ai parassiti (i pericoli provengono soprattutto dalla mosca delle olive e dalla tignola), la raccolta, la spremitura al frantoio, la conservazione dell’olio, gli usi culinari, sgomberando il campo anche da alcuni pregiudizi e fraintendimenti comuni tra i consumatori.
All’epoca di Napoleone l’olio d’oliva compariva in misura minima sulle tavole popolari della nostra terra, spesso sostituito dall’olio di noci, di ravizzone, di vinaccioli, persino dall’olio ricavato dai semi di lino, un prodotto secondario ma non trascurabile della coltivazione della pianta tessile, normalmente presente anche nel Bergamasco, specie nelle alte valli. L’olio di lino entrava in molte preparazioni della cucina tradizionale, tra le quali la polenta cunsa. Giovanni Maironi Da Ponte, rammaricandosi del fatto che la forzata importazione di olio di oliva fosse motivo di grandi spese ogni anno per il Dipartimento del Serio, non si rassegnava alla scarsità del prodotto nella nostra terra e suggeriva alle competenti autorità di incrementare la coltivazione degli olivi nelle «opportune situazioni» della val Calepio e della val San Martino mediante l’istituzione di «qualche picciolo premio ad ogni possessione di un determinato numero di piante» e coll’esentare l’olio d’oliva nostrano dal dazio che le merci dovevano pagare per entrare in città. Suggerimenti che, con opportuni adeguamenti, non sembrano da trascurare ancora oggi.
Paolo Oscar, che ha curato la parte storica, ha analizzato con cura i catasti agrari (1910 e 1929) e il catasto fondiario Lombardo-Veneto del 1853: in quegli anni, sui ronchi «a murelli» o a «ripe erbose» dei dodici principali paesi produttori di olive della provincia (Predore, Tavernola, Sarnico, Zorzino, Riva di Solto, Castro, Parzanica, Vercurago, Lovere, Volpino Costa Inferiore, Rogno con Monti, Castello con San Vigilio) si contavano 8.550 olivi, la maggior parte sparsi tra le altre coltivazioni. Come avveniva nel resto del territorio collinare, sui ronchi terrazzati i mezzadri e i piccoli proprietari cercavano di ricavare la maggior quantità di prodotti per la sussistenza della famiglia: accanto agli ulivi ecco i campetti condotti a cereali, i filari di vite, i gelsi, gli alberi da frutto; sulle ripe e su ogni ritaglio di terreno possibile si raccoglieva il foraggio per le poche bestie di stalla.
Dal catasto del 1853 e da quelli successivi l’autore ha tratto una serie completa di elementi conoscitivi presentati attraverso eloquenti tabelle e grafici relativi alla presenza dell’olivo sui territori dei vari comuni, al numero delle piante esistenti per tipo di coltura (specializzata, mista, piante sparse in colture diverse), alla loro distribuzione altimetrica, alla presenza olivicola sulla superficie totale del territorio comunale, così da offrire un quadro completo ed esauriente dell’olivicoltura bergamasca dall’Ottocento ad oggi.
Il volume si chiude con una interessante «Appendice documentaria» che riporta passi degli Atti preparatori (1826-1836) del Catasto Lombardo-Veneto (1853) per il comune di Predore e ci dà informazioni sulle tecniche agricole sui terreni di collina della nostra provincia. Una piccolissima parte del terreno di quel Comune si lavorava coll’aratro e il resto con la zappa. «All’aratro si attaccano ordinariamente quattro buoi nei terreni forti e due nei leggieri. In un giorno si ara circa tre pertiche bergamasche di terreno e per lavorarne altrettante colla zappa in egual tempo ci vogliono circa dieci uomini».
Il libro, pubblicato alla fine del 2011 dalla Provincia di Bergamo, settore Urbanistica e Agricoltura, è un supporto indispensabile per l’olivicoltore principiante, utile per quello esperto; costituisce altresì una lettura dilettevole per chi, animato dalla semplice curiositas, vuole conoscere come l’albero sacro a Minerva abbia trovato un suo ambiente ideale anche nella nostra provincia, là sulle colline dove la «mite aura de’ laghi» carezza le sue «pallide chiome».
Giampiero Valoti